Coltivo da qualche decennio una mia idea empirica, ovvero che uno Stato (o altro ente territoriale) per raggiungere un necessario punto di equilibrio finanziario, debba perseguire il rapporto (1:7), un dipendente pubblico ogni sette lavoratori autonomi e, altresi', adottare politiche economiche, fiscali e sociali volte a rendere piu' appetibile l'apertura della partita IVA rispetto all'impiego pubblico, al tempo stesso, qualificando e valorizzando quest'ultimo al meglio.
Anche sullo smart working che in questi ultimi giorni e' stato fatto oggetto di polemiche (il giuslavorista, prof. Pietro Ichino "lo smart working? Una vacanza retribuita"; il sindaco di Milano, Beppe Sala "Basta con lo smart working, torniamo a lavorare. Smettiamo con l'effetto grotta che ci fa stare a casa e prendere lo stipendio") andrebbe operata, a mio avviso, una valutazione complessiva, scevra da generalizzazioni e proclami.
In sostanza, ben venga il lavoro da casa, a patto che la produttivita' non sia penalizzata, ove consenta ai lavoratori di passare piu' tempo in famiglia e con i propri figli.
Di solito, si addita qualche pecora nera, qualche pessimo esempio, per colpire l'intero "gregge" che si comporta bene spesso per far passare, fra l'opinione pubblica, un qualche disegno politico.
Cosi' avviene per i lavoratori autonomi, indicati non di rado come evasori fiscali, al fine di giustificare una fisco sempre piu' invadente e aggressivo, e alla lunga, controproducente.
Lo stesso avviene per i dipendenti pubblici dipinti indistintamente come fannulloni e "imboscati", e per tante alte situazioni come ad esempio, di recente, il malandato comparto giustizia, dove si e' preso a pretesto un caso limite (vedi le recenti scarcerazioni) per mettere in discussione le garanzie del processo penale e lo stato di diritto.
Le generalizzazioni creano solo inutili, dannose e controproducenti contrapposizioni al Paese nel suo insieme.
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