Sebbene l’Italia non può vantare
una tradizione liberale solida e di massa gli italiani, inconsciamente,
dimostrano nei fatti di prediligere i sistemi liberali tutte le volte che,
profondamente sfiduciati e nauseati, spingono i propri figli ad inseguire occasioni
di lavoro e studio a Londra (tredicesima
città italiana, vi sono circa 250 mila italiani) ove questi ultimi trovano
meritocrazia e opportunità da noi sconosciute.
Ho una “quasi” certezza: O si fa
una rivoluzione liberale radicale o si chiude per desertificazione economica (complice, ovviamente, a suo tempo, la
sciagurata globalizzazione selvaggia dell'economia che ha annichilito interi distretti industriali e un debito
pubblico debordante fuori controllo).
Storicamente va dato atto a Marco
Pannella, Emma Bonino e ai radicali di aver accumulato nel corso dei
decenni il “know how” (purtroppo, non i voti necessari) per
porre in essere una salutare rivoluzione liberale e non solo in tema di libertà
civili, ma soprattutto di libertà economiche.
Nel 1994 Silvio Berlusconi, che
tanto aveva blaterato e incantato gli elettori sul punto, non ebbe l’ardire e
la lungimiranza di cogliere l’apertura di credito di Pannella.
Nel 2011 la speranza venne riposta
in Mario Monti, bocconiano già
Commissario europeo per la concorrenza, il quale, sapientemente, di
riforme liberali scriveva negli articoli di fondo del Corriere della Sera, ma
una volta autorevolmente nella stanza dei bottoni, non sapeva, o più
probabilmente non aveva il coraggio e la fermezza di tradurre le proprie
convinzioni in azioni concrete di governo.
Nel 2013 va reso merito al
movimento Fare per fermare il declino; tuttavia, lo scarno risultato
elettorale, favorito anche da qualche stravaganza, arenavano un progetto serio
e tutt'ora valido.
Urge una radicale opera di
liberalizzazione a 360 gradi (interventi
in tal senso tiepidi e limitati solo ad alcuni settori sono inutili, fuorvianti
se non controproducenti) dei servizi, delle professioni (già Einaudi auspicava l’eliminazione della
obbligatorietà della iscrizione agli ordini ai fini dell’esercizio
professionale), dei mestieri, delle licenze e del commercio e,
sostanzialmente, lo smantellamento di qualsiasi forma di coorporativismo.
L’economia italiana può ripartire
solo con un massivo rilancio del lavoro
autonomo.
Per far ciò occorre che il sistema
nelle sue varie sfaccettature venga rimodulato a sostegno ed incentivo delle
partite IVA (soprattutto quelle piccole):
dagli ammortizzatori sociali al welfare, dalla previdenza (in senso contrario, irragionevolmente, circostanza ancora più grave
vista la pesante crisi economica sotto gli occhi di tutti, assistiamo
all’assurda aberrazione che per rimettere in ordine i conti dell’Inps e delle
casse professionali si obbligano centinaia
di migliaia di professionisti, giovani e non, a versare esosi contributi minimi
annuali indipendentemente dall’effettivo reddito prodotto) al sistema
bancario e creditizio (dai fidi bancari
ai mutui per l’acquisto della casa) al fisco.
Su quest’ultimo punto sarebbe
auspicabile puntare su di un rapporto collaborativo e leale fra fisco e partite
IVA attraverso il potenziamento dei regimi fiscali agevolati e semplificati: Si
potrebbe pensare all’introduzione (sarebbe
un efficacissimo pungolo all’apertura di piccole posizioni di lavoro autonomo)
di innovativi meccanismi di definizione e assolvimento anticipato
dell’obbligazione tributaria (tax ruling) almeno, inizialmente, per le partite
IVA con un giro di affari non superiore ai 30 mila Euro.
Altrimenti, ragionevolmente e
senza intenti polemici nei confronti di
chicchessia, mi domando quale futuro può avere un Paese dove ancora nel
settembre dello scorso anno a Padova (e
dico Padova) per un posto da infermiere a tempo indeterminato presso la
locale Azienda ospedaliera si sono presentati
in 5045, mentre i giovani 20/30 enni e le loro famiglie messi di fronte
alla prospettiva (che negli anni 60/70
era fortemente allettante) di aprire una posizione IVA e rischiare in
proprio quasi scappano come se avessero di fronte Ebola.
Andrebbe liberalizzato anche il
sistema scolastico ed universitario obsoleto e con i suoi eterni e spesso
inutili percorsi formativi che rimandano sine
die l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro speculando, non di rado,
sulle aspettative mortificate (personalmente
sono per l’abolizione del valore legale dei titoli di studio tout court) di
trovare dignitose opportunità di lavoro.
In materia di creazione di nuovi
posti di lavoro sarebbe un toccasana, sulla scorta del modello londinese, la
massima flessibilità contrattuale in entrata e in uscita (ovviamente dietro il rigoroso rispetto della retribuzione oraria minima),
ma per fare una cosa del genere occorrerebbe necessariamente mettere sull’altro
piatto della bilancia tre cose: un reddito minimo di cittadinanza per i senza
lavoro in attesa di essere formati e ricollocati; la piena gratuità ed accessibilità
ad un servizio sanitario nazionale efficiente e all'avanguardia; prestazioni di
assistenza e previdenza minima garantita a tutti.
Andrebbero seriamente ripensati e
riqualificati in senso manageriale i Centri per l’impiego che dovrebbero
assicurare, in modo capillare, l'effettivo incontro fra domanda e offerta di
lavoro e a svolgere una funzione di “coaching” per i disoccupati da reinserire
nel mondo del lavoro e, all’evenienza, da formare nuovamente.
Infine, una misura inclusiva,
ossia, la eliminazione di ogni forma di discriminazione (dal punto di vista legislativo, contributivo, previdenziale e anche
culturale) a danno dei lavoratori “over” (l’attuale rigidità, fra l'altro,
non è in linea con l'evoluzione demografica caratterizzata dall'allungarsi
della vita media, inclusa la vita produttiva).
Segnalo sul punto che nel Regno
Unito (Inghilterra, Galles e Scozia)
già dal 1 ottobre 2006 è in vigore una normativa (Employment Equality “Age” Regulations) che vieta qualsiasi forma di
discriminazione basata puramente e semplicemente sull'età anagrafica dei
lavoratori e ciò, intelligentemente, fa si che a Londra un over 50 possa
tranquillamente spendersi sul mercato del lavoro.
Ovviamente, una seria legge sui
conflitti di interesse e una sulla trasparenza nell'assegnazione degli appalti
e incarichi pubblici e, soprattutto, il circolo virtuoso dell'economia dovrebbero fare il resto.
O rivoluzione liberale o si chiude
... ogni altra via o ricetta -malgrado
le varie esperienze di governo che si sono succedute dal 1994 in poi a suon di
rassicuranti, ma davvero poco dignitosi, strombazzamenti da parte di giornali e
televisioni compiacenti- è inutilmente
dilatoria ... ne
prendano atto i sindacati, chi sta al Governo e chi si accinge a governare nel
futuro prossimo venturo.
Solo con una sana e totale rivoluzione,tutto cio' potrebbe realizzarsi.
RispondiElimina