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Considerazioni sulla riduzione del numero dei Parlamentari sottoposta al prossimo referendum costituzionale e sulla necessità di superamento del bicameralismo paritario

 

Dico subito a chi pensa che questo sia uno spot elettorale in vista del prossimo referendum che può risparmiarsi di leggere il seguito, mentre, per chi è interessato ad un qualche spunto di riflessione, deve dedicare un buon quarto d’ora del proprio tempo alla lettura di questo post non proprio breve.

Ho avuto modo di leggere in queste settimane diverse argomentazioni, favorevoli e contrarie, al taglio del numero dei Parlamentari sottoposto al referendum costituzionale del 20 e 21 settembre prossimo.

Si tratta di considerazioni quasi sempre pertinenti, alcune condivisibili altre meno.

Personalmente parto dal presupposto che da troppi anni subiamo Governi che, fatti salvi i buoni propositi elettorali, di fatto, non scelgono, non decidono, praticano lo “scaricabarile” per i loro fallimenti e, alla fine, comodamente, polverizzano e disperdono le loro responsabilità all’interno di coalizioni “ammucchiata” disomogenee, approntate per dare, necessariamente e comunque, un qualche Governo al Paese e, ovviamente, conquistare posizioni di potere.

Quante volte avrete ascoltato sconsolati di fronte agli annosi e avvilenti problemi che affliggono la Nazione “… non mi hanno lasciato governare” o, più di recente, “… è colpa degli italiani che non ci hanno dato il 51%”?

Questo stato di cose è enormemente deleterio in quanto deresponsabilizza la classe politica, non favorisce la meritocrazia e la competenza e, soprattutto, non assicura al Paese ciò di cui ha veramente bisogno ovvero, Esecutivi forti che escano dalle urne con visioni di governo praticabili, chiare ed omogenee e che dopo 5 anni di legislatura (4 sarebbe meglio) si presentino responsabilmente al vaglio degli italiani senza scusanti e giustificazioni di sorta, nudi di fronte ai loro meriti e/o demeriti per essere confermati o mandati definitivamente a casa.

Per poter operare riforme utili, decisive, coraggiose, stringenti e anche impopolari (soprattutto, sull’orlo o già dentro il baratro) riguardo a debito pubblico, sviluppo economico, fisco, mercato del lavoro, previdenza, scuola, infrastrutture, giustizia, ambiente, serve, come necessario presupposto, una “madre di tutte le riforme” ossia mettere mano alla parte seconda della Costituzione scritta nel lontanissimo 1948 per avere, finalmente, Governi stabili per tutto l’arco della legislatura, al riparo da crisi e scioglimenti anticipati, e per assicurare una maggiore speditezza all’iter legislativo e decisionale nonché, indirettamente, porre rimedio al trasformismo e alle degenerazioni del Parlamentarismo senza, al tempo stesso, sacrificare il principio di rappresentatività del Parlamento.

Curiosamente da almeno 10 anni sul blog Italia Vivibile avevo ipotizzato un taglio numerico proprio di tale consistenza (400 deputati e 200 senatori) che ho poi ritrovato, non con poca sorpresa, nel Ddlc presentato nel 2018 dall’on. Fraccaro del Movimento 5 Stelle.

Ritengo, pertanto, la riduzione (400/200) oggetto di referendum un punto di partenza e non di approdo da inquadrare, appunto, per le ragioni dianzi dette, nell’ottica di un intervento più ampio ed articolato che tocchi l’intero assetto istituzionale e la legge elettorale stessa.

Non trascuro e rispetto, ovviamente, le preoccupazioni manifestate da chi intravede dietro tale riduzione il rischio di una mortificazione del principio di rappresentatività del Parlamento richiamando l’originaria previsione della Carta in merito.

Tuttavia, se è vero che gli originari articoli 56 e 57 della Costituzione stabilivano il criterio di un eletto alla camera ogni 80 mila abitanti e di un eletto al Senato, su base regionale, ogni 200 mila abitanti (successivamente, nel 1963 si è fissato in 630 il numero dei deputati e in 315 quello dei senatori) non va dimenticato che venivamo da un ventennio in cui la rappresentanza parlamentare aveva subito una mortificazione pesantissima.

A tal proposito rammento che più di trenta anni fa, l’on. Nilde Iotti, già deputato dell’Assemblea Costituente, pertanto al di sopra di ogni sospetto, auspicava addirittura la riduzione della metà del numero dei parlamentari rimarcando, a chi gli obiettava l’originario rapporto di cui ai sopra citati artt. 56 e 57, che nel 1948 si usciva da un regime autoritario e, giocoforza, occorreva ristabilire un forte rapporto democratico che nei decenni successivi si era comunque rafforzato grazie all’elezione dei Consigli Comunali, Provinciali e Regionali a partire dal 1970.

In tutta franchezza, poi, la mia preoccupazione in questi ultimi tempi oltre che nel rischio di compressione del principio di rappresentatività del Parlamento, acuitosi a seguito dell’introduzione del maggioritario (vi invito, per farvi una idea, a rileggere la sentenza n. 1/2014 della Corte Costituzionale) risiede, maggiormente, nella "anemia di sovranità popolare sostanziale".

La mia sensazione, infatti, è che i partiti trascurando di essere il trait d’union fra sovranità popolare e istituzioni, snaturando la ratio sottesa all’art. 67 e al divieto di mandato imperativo, mediante pratiche tasformiste e discutibili “operazioni di Palazzo”, danno vita ad Esecutivi, anche se legittimi, privi di quella necessaria sostanziale legittimazione popolare (di cui sono investiti solo formalmente) che solo, di volta in volta, il passaggio alle urne può conferire.

Peccato, poi, che alcuni anni fa il sen. Renzi, allora capo del governo e del maggior partito, probabilmente allettato e inebriato dall’incetta di potere e consenso (situazione, purtroppo, ricorrente per ogni leader di turno col vento in poppa), in modo autoreferenziale, ritenne superflui i suggerimenti e le riserve di autorevoli giuristi (Zagrebelsky, Rodotà, Marini, Pace, Ferrara, Gallo, Villone, Besostri, Azzariti, Grandi, Carlassare, Ainis ecc.) i quali opportunamente, dal mix improponibile fra la riforma costituzionale Boschi e la legge lettorale “italicum”, paventavano proprio la lesione del principio di rappresentatività del Parlamento unita al rischio concreto di un “governo padrone del sistema costituzionale”, di uno “strapotere del partito unico”, di una "dittatura della maggioranza" (e fu il motivo per cui votai contro).

Sarebbe potuta andare diversamente, ma è acqua passata ormai.

Purtroppo il motivo per cui non si approda mai a nulla è che fra i partiti, che continuano a delegittimarsi a vicenda, ahimè, spalleggiati e incoraggiati dalla stampa, dai media e dai rispettivi tifosi, è sempre in agguato la reciproca diffidenza nonché il timore di consegnare (attraverso leggi elettorali con premi di maggioranza) al partito (o alla coalizione) avversa il controllo dei due rami del Parlamento e, conseguentemente, il Governo indisturbato del Paese in assenza di un rassicurante sistema di contrappesi e garanzie.

Mi sembra evidente che non si può andare avanti così: sarebbe auspicabile un compromesso fra tutti, una sorta di accordo che, diligentemente e opportunamente, rassicurasse definitivamente la probabile maggioranza e la probabile opposizione del momento.

Come accennavo poco fa coltivo una mia idea da molti anni che scaturisce proprio dalle istanze di governabilità sopra evidenziate e che espongo brevemente di seguito a scopo illustrativo e di stimolo alla riflessione per chi legge:

Da una parte, una Camera (400 deputati) eletta (preferibilmente per 4 anni) mediante una legge elettorale maggioritaria o anche proporzionale purché con un robusto premio di maggioranza (in modo da assicurare una maggioranza in Aula) a cui attribuire la potestà esclusiva sulle leggi ordinarie e, in via esclusiva, il voto di fiducia al Governo.

Dall’altra, un Senato (200 senatori) eletto, ogni 5 anni, non contestualmente alla Camera (per rimarcarne al popolo la funzione di Garanzia), mediante un sistema elettorale proporzionale puro (stabilito in costituzione) senza alcun sbarramento e/o premio di maggioranza cui lasciare la potestà esclusiva (con i quorum e la procedura aggravata prevista in costituzione) sulle leggi di rango costituzionale nonché il parere, obbligatorio ma non vincolante, su tutte le leggi ordinarie votate dall’altro ramo del Parlamento.

Una sorta, dunque, di “Senato delle Garanzie” composto da 200 “ottimati” scelti dai rispettivi partiti ed eletti “solennemente” in tempi diversi rispetto alla Camera ed in cui, grazie al proporzionale puro, perfino i piccoli partiti dello 0,5% troverebbero rappresentanza e "diritto di tribuna".

Tale Senato pienamente rappresentativo di tutto il corpo elettorale italiano, potrebbe eleggere, con ampi quorum, i giudici della Corte Costituzionale, i membri del CSM di nomina parlamentare, i membri onorari della magistratura (art. 106, comma 2, Cost.), i membri delle Amministrazioni indipendenti, c.d. Authority (ANTITRUST, AGCOM, PRIVACY, CONSOB, IVASS ecc.), il consiglio di amministrazione della RAI, il governatore della Banca d’Italia, il Presidente della Repubblica (ma con un Senato del genere potrebbe essere anche il Presidente di questa Assemblea a svolgere le funzioni di Capo dello Stato).

In tal modo, gli organi di garanzia e di controllo democratico verrebbero ad essere espressione di tutto il popolo italiano, minoranze incluse.

Il “nuovo” Senato, perno del nuovo sistema Istituzionale, proprio per questa funzione di garanzia e controllo sull'operato del Governo e indirettamente sui “poteri forti” si avvicinerebbe ai cittadini entrando nel loro cuore e nella loro considerazione.

Questo insieme di cose assicurerebbe, a mio avviso, la stabilità dei Governi per tutto il corso della legislatura e, al tempo stesso, garantirebbe l’opposizione senza alcuna confusione fra controllati e controllori e commistione fra i rispettivi ruoli.

Ringrazio il lettore che è arrivato sin qui e per il 20 settembre prossimo auguro buon voto a tutti.


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