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Lo strano modo italiano di concepire le liberalizzazioni!

Ricordo che qualche decennio fa manifestavo insieme ad altri giovani praticanti davanti alla Camera dei Deputati a favore della liberalizzazione dell’accesso all’avvocatura, quando una giovane collega, candidamente, in totale buona fede, mi confidò che il giorno successivo avrebbe manifestato in Campidoglio, insieme al padre tassista, contro la liberalizzazione delle licenze dei taxi proposte dall’allora sindaco di Roma; rimasi silenzioso e sbigottito di fronte a tale palese contraddizione.
Niente spiega meglio di questo semplice aneddoto di come si intendono da noi le liberalizzazioni.
Tutti ne dicono un gran bene dipingendole come un "toccasana" per l’economia: Semplici cittadini, politici, giornalisti, economisti, accademici, sindacalisti, rappresentanti delle varie categorie produttive; ma nel “Paese degli orticelli” tutti le vogliono e le concepiscono esclusivamente “in casa altrui”.
E come se fossimo antropologicamente incompatibili.
A partire dai politici che magari accusano i notai di tramandarsi di padre in figlio la professione e lo studio e che si comportano come se avessero ereditato le cariche elettive.
Nulla quaestio se tutto ciò fosse confinato al puro dibattito; il guaio grosso e che ciò costa tantissimo alla collettività in termini di qualità dei servizi e concorrenza e, soprattutto, di crescita economica.
Infatti, secondo la Banca d’Italia, una decisa politica di liberalizzazione nei settori meno esposti alla concorrenza potrebbe generare un aumento del PIL dell’11%. Per l’ OCSE, le liberalizzazioni aumenterebbero la produttività in Italia di quasi il 14% nei prossimi dieci anni.
In sintesi, in un Paese che anno dopo anno perde in capacità produttiva e che, pertanto, dovrebbe costruire "ponti d’oro" a chiunque voglia intraprendere qualsivoglia attività, lo status quo è divenuto ormai insostenibile.
http://italiavivibile.ilcannocchiale.it/2010/08/15/lo_strano_modo_italiano_di_con.html 

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